A soli 11 anni decisi da solo di lasciare la scuola, in prima media mi bocciarono e per colpa di una maestra tiranno delle elementari, schifai la storia l’italiano la matematica la scienza. Per me era più importante il lavoro che molti miei cugini e amici già avevano. Fruttivendoli, ambulanti, pellettieri, camionisti, artigiani. Quando incominciai a lavorare mi resi subito conto che non era poi così bello, non resistevo più di una o due settimane, odiavo i “padroni” che per 500 lire mi rendevano “schiavo”. Sentivo sempre, da quest’ultimi, la solita frase ogni qualvolta iniziavo un nuovo lavoro: “io tratto tutti come figli”; e io pensavo sempre: “ma chi ti vuole come padre?!”.
Pasqualino, il mio primo amico, che abitava in un basso, in uno dei tanti vicoli del rione, non aveva neanche la licenza elementare, lavorava presso una salumeria storica, portava le merce a domicilio. Lui al contrario di me faceva quel mestiere da molto tempo, non si lamentava mai e, ogni cazziata che gli facevano, sorrideva come un neonato. L’accompagnavo spesso nei tragitti che lui faceva e, nel frammezzo, parlavamo sempre della partita di pallone che ci aspettava la domenica mattina al bosco di Capodimonte. Ma la cosa più divertente era staccare e mangiare i cuzzetielli degli sfilatini che le clienti avevano ordinato in salumeria. La tecnica consisteva nel prendere il pezzo di pane, che usciva sempre un po’ fuori dal suo involucro, e girarlo al contrario cosicché nessuno poteva accorgersene della mancanza. Al massimo, visto che lo sfilatino era morbido al centro, le sue estremità invece più dure, la giustificazione maldestra era che in qualche modo si era staccato accidentalmente.
La mia famiglia era povera ma a confronto con quella di Pasqualino eravamo benestanti. Noi abitavamo in un condominio, lui in un basso. La mia casa era di 30 metri quadri, divisa in due stanze e un bagno, la sua era un po’ più piccola, aveva una sola stanza, con il cesso e il lavandino assieme alla cucina. Mio padre era operaio, suo padre disoccupato. Noi eravamo in sei, loro in dodici. Il lavoro sicuramente non ci accomunava mentalmente, io mi arrabbiavo molto perché lui doveva lavorare anche nei giorni di festa. Ci volevamo molto bene. In estate ci svegliavamo la mattina presto e andavamo “o’ trescalella” a fare i tuffi. Predavamo la metropolitana a piazza Cavour senza fare il biglietto, e subito dopo il pullman che ci portava alla fontana del Sebeto.
Pasqualino mi voleva così bene che quando non volevo o non potevo andare a mare, perché a volte i miei genitori si opponevano, lui mi preparava la colazione (di solito pane e pomodori), si presentava a casa dicendo a mia mamma: “signò nun ma facite ittà”. Mia mamma finiva per intenerirsi accettando di malgrado la sua insistenza. In quegli anni la nostra esistenza ci aiutava e ci rassomigliava, anche la nostra diversità, io ero “studiato” (come dice lo scrittore Carmine Abate), perché sapevo leggere e scrivere, e fare di conto, lui invece quasi un analfabeta; ci congiungeva una sola vita, una sola amicizia, una sola speranza… Sono trent’anni che non vedo Pasqualino, qualcuno mi ha raccontato la sua storia. Non so se sia vera. Non voglio crederci. Non posso raccontarla. [+blogger]
Un racconto, le storie dal basso. Bisognerebbe scriverle e leggere ogni giorno. In passato così si spera per un futuro per i nostri figli. Imparare ed insegnare come nella vita per sempre. Mino.
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Perché non ci sveli il finale? Sono molto curioso 🙂
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