Mio padre portava le scatole, con il suo bel camion blu, per tutta la città. A volte le portava in altre regioni dell’Italia e finanche i Francia e in Germania. Erano scatole vuote di scarpe e di camice. A volte consegnava anche gli scatoloni per l’imballaggio. Per cinque giorni alla settimana, a volte facendo gli straordinari per una mezza giornata il sabato, e per oltre quarant’anni, mio padre si svegliava alle sei di mattina. Mio padre rappresentava migliaia di lavoratori napoletani; migliaia di lavoratori erano gli operai; gli operai rappresentavano la “mancanza”.
Il concetto di “Mancanza” era totale, mai come negli anni Ottana e Novanta del Novecento nel rione, chi lavorava era considerato un privilegiato. La sintesi era pressappoco questa: “accontentatevi di quel poco che avete, altrimenti vi togliamo anche quel poco”. Finirono per convincersi tutti. Così fu creato uno spartiacque che aveva il sapore di una sovversione.
Ma negli anni Ottanta/Novanta, il quartiere era altro. Era distrutto dalla comunicazione giornalistica e da molti intellettuali. Noi eravamo distrutti come famiglie. Finimmo per convincerci tutti: vuoi vedere che il marcio era dentro di noi? La droga si confondeva con il drogato; la camorra con la famiglia; la disonestà con la disoccupazione; l’illecito con il lavoro. Eppure il rione aveva visto migliaia di lavoratori. Napoli aveva visto l’Italsider, l’Olivetti, l’Alfa Romeo, Mario Valentino. Solo pochi onesti dissero che non capivano niente di questa città. Quelli che, invece, si avvicinavano alla realtà, rimasero esclusi. Chi poi la descriva minuziosamente, formulando anche definizioni e soluzione ai problemi, furono santificati. Finirono e finimmo per crederci tutti. [+blogger].