Ieri. Ore 12,30, chiamo un cellulare, una persona che vende gas gpl. Gli chiedo se può portarmi due bombole di 15 kg. La persona che risponde mi dice subito che può sì consegnarmela, ma solo fuori casa. Mi chiama verso le 14,30: “Arrivo in cinque minuti”. Apro il cancello di casa per farlo entrare direttamente con l’auto. Una volta entrato esce furtivamente dalla portiera laterale con uno slancio da adolescente. Entrambi con le mascherine e i guanti ci salutiamo mantenendo le distanze. In verità abbiamo superato di molto le regole visto che siamo circa 4 metri lontano l’un dall’altro. Apre le porte del suo piccolo furgoncino ed estrae, una alla volta, le bombole e carica allo stesso modo le altre due vuote che gli ho indicato. Anche i nostri sguardi sembrano aver paura, come se ci potessimo contagiare con un’occhiata. A questo punto le distanze si devono ridurre, devo pagare la commissione. Tiro fuori dalla tasca i soldi che avevo contato prima che arrivasse. Non c’è resto per fortuna. Sempre con lo stesso slancio apre l’auto e si rimette al volante. Prima di schizzare via velocemente, mi lancia un bigliettino da visita, gli urlo buon lavoro ma non so se ha sentito. Io prima ho fatto i miei calcoli per non farmi dare il resto, lui vista la velocità, ha fatto i suoi. Bene, ci vediamo fra due mesi. Tutto questo si è svolto in un lasso di tempo che non ha superato un minuto d’orologio. Sono entrato, ho lavato le mani più volte usando un disinfettante. Lui il disinfettante ce l’aveva in auto. Menomale.
Ripenso alla precarietà di questi tempi, alla mia bombola di gas che serve per riscaldare il latte dei miei due bambini, che serve per cucinare e per fare tutto quello che normalmente faccio da anni. E’ solo una questione di definizione, in fondo la paura non è che un sentimento irrazionale: vi prego lasciatemi definirla così. Abito in un luogo isolato, qui al massimo passano 10 persone al giorno e, visto che la strada è molto larga, il bisogno della mascherina è superfluo. Non ho la percezione di capire, rimanendo tutta la giornata a casa, se la gente veramente non esce o se per strada le auto non ci sono. Qui è sempre la stessa cosa. Abito in una periferia che non è periferia né paese. Di fronte ci sono i palazzoni, quelli che io definisco “comunisti”. Un parco immenso, edifici con finestre e balconi rientrati, tanto cari agli ingegneri che negli anni del boom hanno fatto soldi a palate. Ammassati ci sono la gente povera, ex terremotati degli anni Ottanta, molti sono del centro storico, diverse famiglie dei quartieri spagnoli. Quando vedo qualcuno affacciato alla finestra della sua abitazione, faccio slanci acrobatici per salutare. In venti giorni è successo una sola volta. Oggi il bombolaro… sto ripensando a quel “buon lavoro” che gli ho urlato invano mentre andava via. Tra poco guardo il mio film pomeridiano. Stamattina ho giocato con i miei due figli. Ah, dimenticavo, ho iniziato un classico: Clarìn, “La Presidentessa”. Mi impegno a pensare. E’ una fiction … o forse è solo realtà. [+blogger].
Bello, in effetti di questi tempi sembra di vivere in un film.
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Grazie, bisogna capire adesso se la fiction si sostituisce alla realtà, come negli episodi di Black Mirror
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