per una definizione

Raccontare la storia di un vicolo e della sua gente, di piccoli commercianti, di operai, di artigiani non è poi così differente dal raccontare una favola oppure una menzogna. La vita di queste persone non è straordinaria né trascendentale, è una vita normale fatta di gioie e dolori, di paure e disincanti, di verità e bugie, di ricordi e invenzioni. Non c’è l’arte nelle pietre, l’arte la possiamo vedere sempre e comunque. Da migliaia di anni è presente e non va via, inutile anche spiegarlo, si commenta da sé. La gente lo sa, cosicché il vico Sanfelice deve il suo nome ad un architetto famoso tanto da far diventare famosi anche i suoi abitanti. Patrizia è famosa per la famiglia della moglie di suo figlio, Vincenzo è famoso per suo nipote e sua moglie, Amalia è famosa per suo marito e sua zia. Quello che conta in questo vicolo è l’essere, la voglia di considerare un bambino brutto il più bel bambino del mondo, la voglia di considerare uno scansafatiche il più laborioso della terra. Questo non perché l’apparire importa di più dell’essere, ma perché dentro la storia ci siamo anche noi, vogliamo scriverla  in modo sbagliato, sgrammaticato, anche sostituendoci a dio. 

Gli esempi scritti e vissuti sono la diretta conseguenza fantastica di un’esperienza sul campo. Per cercare di non cadere nella consuetudine rimetto in discussione le mie conoscenze. Allo stesso modo cerco di applicare tutte le informazioni che ho recepito come cittadino della Sanità, come figlio di un operaio, come volontario e come blogger. Non pretendo la verità, non saprei dove trovarla. Nella vita vissuta di una donna che non ha mai visto il marito, di un’altra che ha lavorato da sola per crescere i suoi quattro figli, di cui due sordomuti, in un piccolo commerciante che ogni mese minaccia di chiudere il proprio negozio, in un operaio che dopo quarant’anni di lavoro è licenziato senza trattamento di fine rapporto né pensione di vecchiaia, in queste e in altre spiegazioni cerco un po’ di conoscenza.

Definire questo quartiere equivale a definire una città. In esso vi è insita la molteplicità, le differenze, il passato e, come piace tanto agli antropologi, anche la complessità. Lo stato di abbandono di un luogo equivale alla morte sociale. Così come la gente interpreta e vede le Istituzioni, allo stesso modo vede e interpreta la propria realtà. L’Istituzione è parte integrante della vita sociale, come la famiglia, la chiesa, lo Stato. Il nostro è un territorio che risente moltissimo la mancanza di queste definizioni: se la famiglia si organizza, come un tempo facevano i sigarettari, i falegnami, i guantai e gli operai, la costruzione dell’oggettività diventa costruzione legittima, imparziale, obbligata. Un tempo si parlava di nobiltà, di borghesia, di sottoproletariato e quando si diceva ciò, era ben evidente a chi e a che cosa si stava alludendo. Se la mancanza di senso civico è la diretta conseguenza della disorganizzazione; al contrario la “civiltà” è l’espressione ambivalente di una laboriosa spiegazione. Essa può essere capita nella circostanza vissuta ma non del tutto compresa, in quanto la comprensione è soggetta a spiegazioni differenti. Ciò non giustifica il male, non tenta neanche di comprenderlo, ma gli aggettivi, i sostantivi, gli stereotipi e le etichette sono compresi in virtù della propria bontà, arroganza, onestà.

Questo rione non ha eroi, non ha la carità, non ha il male e viceversa. I legami sono strettamente connessi alla storia, una storia che viaggia nell’indifferenza, nell’inettitudine, nell’illusione. Restare nel mondo vuol dire aggrapparsi alla propria vita. I poveri sono poveri e rimangono poveri. Per i ricchi è la stessa cosa. La natura salva come salvano san Gennaro e san Vincenzo, un usuraio e un datore di lavoro, uno spacciatore, un mecenate… e un tempo anche una cortigiana. Ma questo è solo un romanzo.  [+blogger]

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