la ricchezza dei guantai

Secondo Capitolo

Negli anni Venti e Trenta la lavorazione dei guanti aveva il suo centro principalmente nella città di Napoli[1]. Tra la prima e la seconda guerra mondiale la stagnazione economica portò a crisi cicliche tale produzione, anche se dopo questi ultimi eventi l’industria conciaria e la lavorazione di pelle e guanti vide una crescita più che esponenziale. La crisi che colpì questo settore costrinse molti guantai e maestri artigiani ad abbandonare il lavoro, mentre altri cercheranno di non separarsi dai propri mezzi e di non isolare totalmente questa attività[2]. Questo tipo di mestiere ha rappresentato a Napoli un particolare fenomeno, producendo un tipo di lavoro a domicilio semi-autonomo (e autonomo) che distinguerà, con le sue diverse e numerose sfumature, l’artigianato. Difficile da definire è la linea di confine tra questo specifico lavoro e il vero e proprio artigianato.

Un altro fenomeno particolare è quello del lavoro a nero. Questo aspetto cresce e si accelera dopo gli anni Quaranta[3]. Non c’è la possibilità di quantificare questi dati, anche se dobbiamo dire, visto che circa il 90% della produzione dei guanti venivano fatti in Campania, che è cosa scontata far riferimento a questa regione, e particolarmente a Napoli, come quella che più di ogni altra il fenomeno del sommerso prende piede, allignando le radici dell’illegalità. In una pubblicazione bimestrale del Banco di Napoli, Giovanni Brancaccio mette in evidenza che “La diffusione del lavoro nero attraverso la sua forma più tipica: il lavoro a domicilio, ha contribuito, poi, non poco ad alimentare il fenomeno dell’occupazione nascosta, a mantenere cioè la percentuale della popolazione attiva napoletana, nelle statistiche ufficiali, a livelli inferiori a quelli reali[4]” […].

Quest’attività, almeno nella città partenopea, e forse anche in tutta la Campania, non ha mai raggiunto quel fenomeno di intensità dei capitali tale da paragonarla, per natura, alla grande industria esportatrice. Comunque la lavorazione della pelle restava uno dei più importanti settori economici della Campania e in particolare di Napoli[5]. Anche nei “Quaderni del Centro Mediterraneo della Moda e dell’Artigianato viene evidenziato come la produzione dei guanti “Di seta, di lana, di tela, di merletto, di raso, di pelle, lunghi, corti essi possono oggi appagare qualsiasi esigenza, anche la più raffinata ed in alcuni paesi, come nel mezzogiorno d’Italia, costituiscono uno delle più cospicue forze economiche ed uno dei capisaldi della rinascita dell’artigianato nostro[6]”.

Il lavoro femminile nella produzione di guanti è stato molto importante e soprattutto il lavoro a domicilio diventò strategico per molte famiglie del rione, e di Napoli in particolare. Dagli anni Quaranta fino a tutti gli anni Settanta in tutta la regione Campania si contavano migliaia di famiglie impegnate a svolgere quest’attività. Un mestiere svolto a pieno ritmo da tutti i membri della parentela che gestivano la propria economia attraverso questo tipo di lavoro. In una stessa abitazione si conciava la pelle mettendola ad essiccare per diversi giorni, poi si spaccava, tagliava e cuciva. Intere stanze ricoperte di pelli, secche o fresche, che il più delle volte venivano trasportate da una casa all’altra e da un palazzo all’altro per le diverse fasi prima di arrivare al prodotto finito. Spesso il conciatore o il tagliatore portava a cucire le pelli da donne esperte che abitavano nella periferia di Napoli, questo perché, come ci conferma il nostro intervistato, “nella provincia le cucitrici erano più economiche di quelle della città di Napoli[7]”.

I dati riportati nell’Annuario della Federazione Nazionale Fascista[8], riferendosi al 1931, evidenziano come il numero delle fabbriche di guanti in Italia fossero 800, con circa ventimila operai, di cui 500 solo nel napoletano[9]. L’Ente Nazionale per Artigianato e per le Piccole Industrie (E.N.A.P.I.) nel 1932, calcolava che i 2/3 della produzione Nazionale era opera degli abitanti napoletani. “Nel censimento industriale del 1937-39, relativamente alla classe XII – cuoio e pelli – e XVI – Vestiario ed abbigliamento – in una delle quali è lecito supporre rientrasse la categoria – guanti e pelle – presentava le seguanti cifre: 11.551 esercizi attivi in Campania con 18.520 addetti, dei quali 11.426 a Napoli nel settore – cuoio -; 11.422 esercizi attivi in tutta la Campania con 19.369 addetti , dei quali 13.227 a Napoli nella classe – vestiario ecc[10]”. La quota dei lavoratori delle pelli ammontava a circa il 72%, ma poteva raggiungere anche percentuali più alte visto il lavoro irregolare in tutta la Campania. Comunque, bisogna ribadire che Napoli era considerata la capitale del guanto e, in proporzione superiore, della conciatura per le varie fasi della produzione.

Ancora di più disorganica era la situazione legislativa che in un certo qual modo contribuì ad alimentare il lavoro nero. A riguardo nel libro di Brancaccio, proprio dove si tenta di spiegare una delle cause che ha contribuito al lavoro irregolare, si legge: “Come è possibile notare, la situazione sindacale nel settore si presentava abbastanza caotica e ciò a causa della questione artigiana. Le norme vigenti stabilivano che poteva definirsi artigiano chi non avesse avuto alle proprie dipendenze più di 5 persone, familiari esclusi. Ora, se si considera che la divisione generalmente adottata nel settore guantario, prevedeva per la fabbricazione del tipo di guanto più semplice l’opera di almeno 10 persone, teoricamente ogni datore di lavoro avrebbe dovuto considerarsi industriale più che artigiano. Invece, molti industriali, quasi sempre per motivi fiscali, finirono per autodegradarsi ed iscriversi alla federazione artigiana[11]”. E’ così che alla fine degli anni Trenta, la produzione di pelle, e di guanti, subirà una battuta d’arresto facendo crollare inesorabilmente il maggior nucleo di produzione nazionale.


Introduzione: Articolo correlato

Primo Capitolo: la ricchezza dei guantai

[1] Elaborazioni Statistiche “Commercio Speciale di Importazione ed Esportazione” – Anni di Riferimento 1919/1933 – Sciarelli Sergio, Napoli 1978

[2] Come ci ha spiegato il sig. Giuseppe Figliuolo: il padre dovette abituarsi al lavoro ciclico e resistere alla crisi economica del settore. Egli non abbandonò questo mestiere ed infine portò avanti l’attività che gestisce tutt’ora.

[3] In tutte le interviste gli ex-guantai del rione Sanità hanno spiegato come molti lavoratori di pelle e concia dovettero per forza lavorare a nero. Le imposte che gravavano su questa attività aumentarono progressivamente.       

[4] Brancaccio Giovanni “Il Guantificio Napoletano nel periodo tra le due guerre Mondiali” – Rassegna Economica – N°6 Novembre 1979, pag. 1424

[5] […] l’industria dei guanti a Napoli già fiorente al principio dell’Ottocento, la stessa produzione di articoli di pelletteria e di scarpe destinate ai mercati esteri, mostrano come l’attività artigianali fossero diffuse sul territorio napoletano e nella sua provincia. “Attività di impresa e società nel Mezzogiorno. Il sistema moda della provincia di Napoli” di Paola De Vivo – pag. 217.  “Mezzogiorno dei Distretti” a cura di Gianfranco Viesti, ed. Meridiana Libri.  

[6] Zaniboni M.R. – Napoli 1954

[7] Intervista al sig. Vincenzo Gioia

[8] Cfr. Federazione Nazionale Fascista delle Industrie Varie, Annuario 1931, cit., fasc. IV.

[9] “Dall’esame che faceva seguire risultava che nel 1931 solo 128 fabbriche erano federate e nell’ordine seguente: Campania 87; Lombardia 24; Piemonte 7; Toscana 4; Emilia 3; Liguria 2; Veneto 1”. Cfr. Brancaccio, op. cit., pag. 1426

[10] Ibidem

[11] Ibidem

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