con i miei cugini

Avevo lasciato la scuola prestissimo. Non volevo sapere nulla di banchi, di professori, di compiti, di svegliarmi presto la mattina. Mio padre mi promise la bici se dalla prima fossi passato alla seconda media. Ma niente da fare, la libertà di essere indipendente mi affascinava molto di più. Con mio cugino Egidio mi organizzavo per fare filone quasi tutti i giorni e lui, invece dei libri, in cartella ci metteva il pallone. A Piazza Cavour, dietro l’ingresso della metropolitana, andavamo a giocare assieme ai disoccupati. Sudate e voglia di essere cresciuti, la scuola era per piccoli ed io fumavo per sentirmi grande. Mio padre lavorava tutta la giornata e mia mamma non camminava molto bene, a causa di un’artrite reumatoide deformante; per loro era quasi impossibile scoprire quello che facevo la mattina. Il mondo dei grandi mi incantava. Quando nello scrutinio finale emerse la mia bocciatura (e quella di Egidio), imparziale mio padre mi disse: “che vuò fa”?!

Studiare non faceva per me, non c’era attrazione e non avevo stimoli esterni per fare un confronto. I miei si preoccupavano abbastanza, non volevano che frequentassi quella che loro chiamavano i perditempo: “allora se proprio non ti va di fare le medie, devi andare a lavoro”. D’accordo, esprimevano la loro volontà. Ma anche a quella mi ribellavo. Nel vicolo c’era un bar, per qualche giorno portavo caffè per il quartiere, ma il padrone faceva “peggio” di mio padre; mi diceva che mi trattava come un figlio, a botte e ceffoni. Anche il vecchio idraulico faceva la stessa cosa. Pensai allora di andare a fare il macellaio: macché, qui oltre che al masto, dovevo sopportare anche gli scherzi di chi lavorava prima di me. Una repressione totale, per poche migliaia di lire al giorno. Niente da fare, avevo 11 anni e tre sorelle e tanta voglia di avere amici. Così incominciai a frequentare i miei cugini. Loro sì che erano tanti, 6 maschi e 3 femmine (queste ultime tutte sposate). Lavoravano tutti, tranne uno che, per guadagnare, vendeva le sigarette. Un giorno mi disse se volevo accompagnarlo a piazza Sannazzaro. Insieme a Paolo il lavavetri, Francesco con i fazzolettini e una puttana di nome Maria, molto più grande di mio cugino e di me naturalmente, intrapresi la professione di ambulante semi legale.

In effetti noi non eravamo degli illegali, questo me lo spiegò meglio don Giuseppe, il prete della parrocchia del mio rione. Quando mi conobbe e gli dissi cosa facevo per vivere, mi guardò con occhi luccicanti. Il prete aveva gli occhi piccoli e uno sguardo penetrante. Con un sorriso bonario mi disse: “mica le sigarette le rubate? Le comprate! Pagate la merce e in cambio la vendete, non c’è nulla di male e non è neanche un peccato”. Piazza Sannazzaro per un po’ diventò la mia casa e quella di mio cugino Pierino. Io che ero uno sprovveduto e che non sapevo riconoscere un’auto della polizia, mi imbarcai in una discussione intima con un finanziere che, quando mi vide avvicinarmi all’auto per vendere le Marlboro, mi chiese per scherzo quanto costavano. Voleva darmi la metà e io gli dissi che era un bell’imbroglione, e che al massimo gli avrei fatto risparmiare le 200 lire che guadagnavo per ogni pacchetto. Questa era la somma che mio cugino mi dava per la vendita diretta. Le cose che ricordo meglio sono alcune scene che ho impresso nella mente e a cui spesso ripenso con nostalgia. Mi divertiva molto il modo di nascondere la stecca di sigaretta che Perino vendeva tra i semafori. Appena passava qualche auto della finanza, Paolo il lavavetri, aveva imparato un motivo di una canzone che faceva capire il pericolo; all’accenno della prima strofa, Pierino andava a mettersi diritto dietro al semaforo opposto. Longilineo, accostava la testa e tutto il copro al palo di colore giallo e la stessa cosa faceva con la stecca di sigarette, cosicché era quasi impossibile vederlo e vedere i pacchetti. Uno spettacolo.

Mi divertivano molto anche le discussioni che facevano Paolo, Francesco, mio cugino e Maria. Quest’ultima, quando scendeva a lavorare di mattina, si fermava sempre a parlare con noi. Io ero piccolo e con il sesso, in coppia, avevo avuto poco a che fare. Spesso le loro discussioni erano rivolte alle cose che Maria faceva con i suoi clienti. Maria era molto socievole, alta, bella, rideva sempre e rideva anche quando Paolo, l’unico a non avere una donna, si ingrifava quando l’argomento toccava la sua sensibilità. La donna sempre più divertita giustificava la sua amicizia, il suo volerci bene che superava la professione, che superava il lavoro e le sue ambizioni. Tutti ridevamo perché il povero Paolo ci restava male, il suo fisico e la sua espressione non erano certo quella di un bel garzone. Ma ci provava senza volgarità e senza volgarità Maria rispondeva a quei motteggi e quelle paroline che in qualche modo identificavano un lavoro che era capito in parte. Passarono poche settimane e i miei decisero che non dovevo andare più a vendere le sigarette. Troppa era la paura che mi ammalassi e che per strada potesse succedermi qualcosa di brutto. Se pur era vero che Pierino mi proteggeva, le sfuriate di pioggia e di vento non potevano proprio prevederle. Lasciai a malincuore quei lavoratori che tanto mi facevano ridere. Il lavoro, quello di ragazzo che doveva sottostare al padrone, mi faceva schifo. Portavo stampati ancora nella mia mente quei giorni passati a piazza Sannazzaro. Chi non voleva rubare, chi non voleva imbrogliare, chi non voleva studiare e soprattutto non voleva essere sottomesso, rappresentava la mitica città dell’arte di arrangiarsi che, nelle rappresentazioni sociali, era la sintesi del niente, del falso, del menzognero. Oggi, per fortuna, alcuni storici ne restituiscono il merito. [+blogger]

5 commenti Aggiungi il tuo

  1. Maria ha detto:

    Molto intimo questo scritto, molto vero, direi “carnale”. Viva i ricordi e chi li sa raccontare!

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    1. Antonio Caiafa ha detto:

      Grazie mille Maria, viva anche chi legge nella libertà.

      Piace a 1 persona

      1. Maria ha detto:

        Sì 🙌🌸

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  2. Angelo ha detto:

    saper leggere e saper scrivere saper far leggere il passato e saper far pensare. Grazie.

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    1. Antonio Caiafa ha detto:

      Grazie a te Angelo, leggo solo adesso il tuo commento. Hai ragione, il passato ritorna sempre.

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