Per una critica turistica al quartiere.

Napoli, e in particolare in questi ultimi anni, il rione Sanità, sono al centro di una intensificazione turistica di portata mondiale. L’aumento esponenziale degli atterraggi all’aeroporto di Capodichino (e delle partenze), così come delle navi da crociera nel porto della città, sono il simbolo di una crescita inarrestabile senza via d’uscita. Napoli, in termine di crescita percentuale nel 2022, ha superato le città come Milano, Londra, Stoccolma, Parigi, Amsterdam: i voli privati tra il 2019 il 2022 sono aumentati del 110% (fonte repubblica).  In questo stesso anno, tra Luglio ed Agosto, mentre molta gente del rione ha lasciato la propria abitazione per recarsi in un luogo di vacanza, migliaia di turisti attraversano a piedi, con i taxi, con auto private e/o con i pullman, le strade del quartiere, affollando i locali commerciali, soprattutto di via Vergini, e di via Sanità. Oggi il rione sembra che ha una sola unica alternativa, quella di diventare ancor più Cool, così come definito da una rivista britannica.

Lungi dal voler fare una critica risolutiva ai fenomeni attuali, mi pongo il problema di una critica che contraddistingua la sottrazione degli spazi pubblici, così come della distinzione di una città/quartiere, in prossimità di una trasformazione radicale, ad uso e consumo illimitato. Questa tesi parte dal libro di Giacomo Maria Salerno dal titolo, “Per una critica dell’economia turistica”, con il sottotitolo indicatissimo di “Venezia tra museificazione e mercificazione”, ed. Quodlibet 2020. Se Venezia, come evidenziato nel testo, è il più grande parco a tema del mondo, il quartiere Sanità sta diventando l’archetipo della super crescita turistica, in una velocità impressionante rispetto a tutte la altre situazioni simili. In 10 anni il rione ha sradicato ogni aspettative: aumento del 500% dei B&B; aperture di luoghi prima inaccessibili come gli Ipogei dei Cristallini: corsie preferenziali per i turisti che da piazza Cavour si recano alle catacombe di san Gennaro o al cimitero delle Fontanelle; aumento esponenziale dei fast food, o meglio, di ogni sorta di negozio che offre cibo e bevande; aumento decuplicato degli affitti e svuotamento dei luoghi di legalità. Tutto questo è la normale conseguenza che, questo tipo di economia, porta con se. Fin qui, forse, niente di nuovo.

Non c’è dubbio che c’è una continua sottrazione del bene comune per un’immagine materializzata che renda l’ideale sempre più vero. Nascono così i beni e i servizi per i viaggiatori, oggi invece si chiamano turisti o, meglio, post-turisti (come indica l’autore del libro), in città sempre più smart o città generiche (Koolhasaa)[1]. Un “collasso” preventivato che non ha vie d’uscita se non quella di consolidarsi attraverso ogni forma di legittimazione. E’ la sopravalutazione dell’economico nei confronti del sociale. Ma tutto questo non può prescindere dal fatto che le trasformazioni di un secolo sono normali e si susseguono nel tempo come fenomeni di continuità sociale: anche se c’è una rottura totale con il suo passato, il suo diniego o la sua successione.

Alla fine del libro, c’è scritto molto bene cosa succede quando una città smette di essere città per diventare “un museo”. Quest’esempio è particolarmente indicato per descrivere quello che attualmente il bosco di Capodimonte, e il centro storico di Napoli, si appresta a diventare o è già diventato. Facendo riferimento all’industria turistica, l’autore scrive: Per raggiungere questo obiettivo, la città storica viene ipostatizzata, nella forma del museo ed i suoi spazi destinati allo sviluppo dei servizi destinati ai turisti, con l’effetto di sottrarla complessivamente all’uso comune che ne ha determinato l’insorgenza come territorio storico di una comunità data. Se la città tutta è un bene comune, secrezione materiale della vita di una comunità costantemente riprodotta dai suoi abitanti, il patrimonio urbano non è quindi che la manifestazione diacronica di quel lavoro comune. In questo contesto, pensare alla città come viva implica il rifiuto del paradigma museale e contemporaneamente la resistenza puntuale ad ogni tentativo di appropriazione e privatizzazione; implica il rifiuto di “’un’economia dei beni culturali che si riduce al parassitario drenaggio di risorse pubbliche in tasche private, socializzando le perdite (l’usura materiale e morale dei pochi “capolavori” redditizi) e privatizzando gli utili, senza creare posti di lavoro, ma sfruttando selvaggiamente un vasto precariato intellettuale.

Gli esempi descritti possono essere decine e decine, uno su tutti, l’appropriazione legale del sottosuolo napoletano. Da quando il “cambiamento” del rione è stato reso possibile, grazie a una consolidata industria turistica, l’economia dell’immagine ha rafforzato le reti di relazioni economiche a scapito di quelle sociale. La disfunzione dei servizi pubblici e il suo graduale esautoramento è l’altro dato negativo che il quartiere può vantare. In poco meno di dieci anni, le offerte turistiche sono aumentate esponenzialmente, mentre le forme di bene pubblico sono diminuite a dismisura. Così, come per Venezia, Taormina ecc, gli abitanti sono costretti a vivere i servizi e gli spazi come turisti e non come cittadini. Nel quartiere manca tutto. Altra questione, di non poco conto, è l’aumento vertiginoso degli affitti.

Se, come dice l’autore del libro, con i suoi numerosi esempi storici, la voglia di evadere, di essere sempre più turisti, nasce da una consapevolezza della nostalgia per il tempo passato, il presente è sempre più artificiale, sempre più manomesso dalla spettacolarizzazione delle cultura. Questo periodo può anche essere considerato come una normale trasformazione storica, in virtù di un cambiamento radicale. Anche se la voglia dell’esotico è vecchia quanto il mondo, la manipolazione ha però dei suoi limiti, in forza del quale, la trasformazione del senso “non ha più senso”. Nel cimitero delle Fontanelle, ossario di studi demologici, antropologici e storici, il culto delle anime purganti si scontra con un teschio ficcato di proposito in una “caccavella”, o con una penna incollata su di un cranio, sempre di proposito, per il turista di turno che deve emozionarsi scattando foto clamorose. Se tutto ciò è parte di un’epoca della finzione, la storia di un quartiere deve essere valorizzata e non manomessa. E se per puro caso la manomissione è parte della cultura, essa deve essere evidenziata e non sottaciuta, altrimenti tutto diventa inconcepibile. E infine. Non ci sono argomenti che possono o devono fermare il turismo nel mondo. Tutto questo sarebbe attualmente assurdo. Anche io faccio il turista quando viaggio. Ma è altrettanto vero che gli aumenti degli affitti, i luoghi costruiti solo per i ricchi, gli spazi pubblici privatizzati (altro esempio di luogo generico è la costiera amalfitana), e il parco a tema che sostituisce o trasforma il centro storico, sono manifestazioni di un “popolo della convenienza” che ha trasformato ogni forma del sapere in forma “sintetica”. Per dirla in parole più semplici. Ogni manifestazione dell’economia che punta a sottrarre lo spazio creativo e storico, aumenta la povertà creando nuove differenze sociali. Le più marcate sono quelle che si rivelano attraverso gli status più deboli, quegli strati della popolazione, i più numerosi, che non hanno accesso perché gli è negato o perché non hanno la possibilità di partecipazione. La forma più cruenta è l’abbandono inconsapevole delle Istituzioni che protrae ogni sforzo per la salvaguardai dei visitatori. Quest’ultima, creando una sorta di legittimazione preventiva, lascia un vuoto incolmabile tra la città vissuta dai suoi abitanti e la città (solo) partecipata dei visitatori. Questo spartiacque è visibilissimo a Venezia, dove la qualità della vita è tra le più basse d’Italia, il centro storico di Napoli e oggi anche nel quartiere Sanità. [+blogger]


[1] Per quest’ultimo termine, si intente, una città senza più cultura o senza più storia, sorta dalle rovine della turistificazione.

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