Di nuovo in casa, di nuovo senza lavoro e soprattutto dopo aver sperimentato il coronavirus in famiglia. Spietata analisi di tutte le contraddizioni che orami non si contano più. Quando alla fine degli anni Novanta mi iscrissi all’Università, il preside della mia scuola superiore quasi mi insultò sapendo che avevo scelto Sociologia come prosecuzione del percorso di studi. Mi disse che dovevo fare Architettura, Ingegneria, una facoltà tecnica e non umanistica.
Mi preme molto questa differenza di opinioni, perché credo che buona parte dei fallimenti della nostra società, siano proprio dovuti a questa mancanza di scelta (ho fatto una scoperta sensazionale?). In un’epoca dove non più le passioni o la ricerca sono appannaggio delle conseguenze economiche, e dove il disfattismo della precarietà ha superato i limiti dell’indecenza; in un’epoca in cui i tracolli sono iniettati come formule magiche (non è un caso quello della regione Calabria), e dove l’inefficienza ha oltrepassato le formule della retorica, non bastano le parole o le infezioni a limitare i danni di una società al collasso e priva di ogni risoluzione, evidentissima soprattutto in questo ultimo periodo storico. Le scelte delle incompetenze purtroppo sono dappertutto e ricoprono i ruoli più importanti in questa fase. Oggi noi stiamo pagando il prezzo per non aver scelto, per non aver seguito i nostri istinti, paghiamo per le politiche nepotistiche, per i baci dati ai mafiosi, per l’incapacità di una gestione economica (e qui l’incapacità bisogna studiarla bene), per una scellerata gestione scolastica che ha permesso di superare i linguaggi collettivi mai esistiti veramente, o esistiti in parte in piccole comunità. Nella nostra grandissima società vige ancora il principio di Peter, ed oggi questa pandemia, ce l’impone come assioma necessario e perverso di aspettative eroiche. Peter diceva che “In ogni gerarchia tutti tendono ad accrescere il loro livello di incompetenza”, nel senso che se io eccello in un determinato lavoro, per questo mio impegno, salirò la scala gerarchica occupando un posto differente e più redditizio. Il mio lavoro lo farà un altra persona. Ma se faccio così bene il mio lavoro, perché ne devo fare un altro e lasciare il posto a qualcuno che non è così bravo come me? Io andrò a fare qualcosa, sicuramente, in cui sono meno bravo del precedente. Ad esempio, con quale competenza un ministro del lavoro diventa poi ministro degli esteri?
Ma torniamo alla mia scelta della facoltà di sociologia. Se per puro calcolo economico avessi scelto di fare ingegneria, in primis credo che non avrei finito il percorso, in secondo luogo non avrei amato ciò che amo ora, in terzo luogo avrei occupato un posto contro la mia volontà, repressa, solo per innestare singolarmente un circuito economico virtuoso. Purtroppo questa è follia che diventa normalità. In questa situazione, incolpevole di aver gestito la mia carriera e la mia vita, avrei scippato il sorriso del mio ex preside di scuola serale, avrei una casa con piscina e colf, un’amante al giorno e un libro dove poter scrivere tutte le mie proteste contro una società che ancora non sa dove mettere i poveri e gli oppressi. Come spesso concludo, la morale della favola non c’è, c’è invece tutta la mia precarietà, che la storia ha zittito, che non è peggio né meglio di quella degli altri che vivono la mia stessa ineluttabile situazione. [+blogger]
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